Gerardo Bombonato
Gerardo Bombonato Presidente ordine giornalisti Emilia-Romagna
BEN VENGA IL CAOS
<Ben venga il caos perché l’ordine non ha funzionato>. Non so se il noto aforisma di Karl Kraus, scrittore, commediografo, giornalista, poeta, polemista e satirico del secolo scorso, fosse presente agli artisti che si accingevano a dar vita al Movimento Artistico Proattivo alla ricerca di se stessi e della loro libertà espressiva. Quel che mi pare certo è che la loro tensione conoscitiva, la loro ansia di scoperta e riscoperta, parta proprio da questo assunto e affondi le sue radici più o meno inconsce in una speculazione antica come l’uomo. Un ritorno alle origini, nella consapevolezza che tutto quello che è venuto dopo non ha certo portato a una conclusione. Ci ha forse reso più ricchi di conoscenza, ma non appagati. Come diceva Giordano Bruno ne ‘La cena delle ceneri’, noi moderni siamo i veri antichi perché sommiamo alle conoscenze del presente l’esperienza di chi ci ha preceduto.Il caos, dunque. Già nel quinto secolo avanti Cristo, Parmenide pensava che la molteplicità fosse solo apparenza e che l’essere corrispondesse all’uno. L’idea dell’unità di tutte le cose è vecchia quanto la filosofia occidentale, ma è stata messa da parte in favore dell’analisi e della scomposizione. Mentre in Oriente la riflessione non si è mai arrestata e le filosofie orientali da sempre affermano che ogni cosa è connessa. Mah! Quanto abbiamo perso e quanto guadagnato nell’operazione è domanda tuttora aperta. Oggi l’idea dell’unità del tutto non è più ristretta a una piccola riserva indiana di mistici e filosofi. La vecchia questione filosofica tra oggetto in sé e la sua percezione e, più in generale, tra l’essere in sé e l’essere percepito sembra aver trovato una definitiva soluzione. La scienza olografica ritiene infatti che il nostro cervello elabori informazioni provenienti da un ordine implicito che collega ogni aspetto della realtà. Due gli interrogativi che hanno riproposto la ‘visione olistica’ della realtà: settori diversi, ma risposte straordinariamente simili. Vediamoli.
Nel campo della neurobiologia si è scoperto che la visione per cui i ricordi e le capacità individuali sarebbero localizzati in particolari zone del cervello non è vera. Infatti, in caso di amputazioni di parti della materia grigia, altre zone del cervello cominciano a svolgere le funzioni prima appartenenti alle aree perdute. Esse non sono quindi localizzate, ma diffuse in tutto il cervello e presenti in qualche modo interamente in ogni singola porzione di esso.
Analogamente nel campo della meccanica quantistica si è arrivati alla conclusione che due particelle legate fra loro (atomo) mantengono la capacità di influenzarsi anche a grande distanza (Cern-Gran Sasso) in maniera istantanea. Al di là dello spazio.
Se tutto questo è vero si può comprendere meglio la vitalità e l’attualità delle ragioni che sottendono il Manifesto degli artisti proattivi: la non linearità del comportamento naturale dei fenomeni, quindi del caos e dell’impossibilità di attuarne una previsione. Con la premessa spinoziana che tutto è in ogni cosa e che l’uomo ha già in sé l’universo stesso. Si tratta dunque di esprimerlo questo universo individuale con un’operazione maieutica dettata dalla creatività e sensibilità personali. In fondo, come diceva G. C. Argan, <l’informale non è una corrente, ma una situazione di crisi>, nella sua accezione positiva e generatrice di stimoli. Il discorso, naturalmente, non può non coinvolgere tutte le esperienze artistiche e non, come dimostrano le opere degli artisti del Movimento Artistico Proattivo: Stefano Fanara, Eliana Re, Enzo Napolitano e Sergio Daniel Blatto poliedrici artisti che si destreggiano tra tecniche digitali, pittura, installazioni e scultura. Sperimentatori sensibili e alternativi, esploratori della mente, dell’inconscio senza dimenticare l’animo. Ai critici di professione il giudizio, agli esteti di strada come me la sensazione dettata dall’istinto. La domanda è sempre una: cosa fa di un’opera un’opera d’arte? Da giornalista e intellettuale ritengo che l’approccio all’opera d’arte non sia mai esclusivamente teorico e razionale, ma comprenda anche caratteristiche emozionali, sentimentali, sensoriali. Magari influenzate, a seconda delle esperienze e del vissuto personale, da altre discipline come l’antropologia, la psicanalisi, la semiotica. In una parola: le cosiddette scienze umane, con un mix di razionale e irrazionale. Giusto quello che mi suscitano le opere degli artisti del Movimento Artistico Proattivo. Ben venga dunque il caos, per dirla con Kraus.
Paola Torniai
Paloa Torniai storico dell’arte
UNA CONDIZIONE PERENNEMENTE CREATIVA
L’arte non riproduce ciò che è visibile,ma rende visibile ciò che non sempre lo è Paul Klee
Il 25 gennaio scorso Bice Curiger, Storica dell’Arte e curatrice, nel 2011, della 54° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, ha relazionato, con Bartolomeo Pietromarchi,da luglio 2011 direttore del MACRO di Roma,nell’ambito della rassegna Discorsi di attualità, organizzata dall’ Istituto Svizzero di Via Ludovisi a Roma, su un tema di flagrante attualità, Arte come manifesto del precariamente vitale. La studiosa,co-fondatrice e caporedattore di “Parkett”, dal 1992 curatrice della Kunsthaus di Zurigo, Editorial Director,dal 2004, di “Tate etc.”, nel ribadire la necessità di un ritorno all’etica dell’arte contemporanea, ha sapientemente indotto la platea a riflettere su come, mentre le Avanguardie storiche di I Novecento avessero fondato la loro condizione di legittimità e il loro statuto operativo sull’equiparazione tra vita e arte, il contemporaneo, viceversa, si dibatta tra l’interazione sorprendente e il luogo del precariamente vitale.
Interrogarsi sul perché continuare a produrre arte nel mondo contemporaneo e su quali modalità adottare per portare ad una piena espressione la sperimentazione artistica è domanda e punto nodale di ogni riflessione creativa. Il raggiungimento del fine estetico, condizione prima e fondativa di qualsivoglia operazione artistica, travalica così materia, gesto e/o segno, e la rappresentazione si sostanzia non già nella riproduzione mimetica,ma nell’atto mentale della rappresentazione stessa, che è procedimento gnoseologico.
Il Movimento Artistico Proattivo – MAP 13, di Eliana Re, Stefano Fanara ed Enzo Napolitano, i fondatori, e Sergio Blatto, artista argentino che ora si è unito al gruppo, risponde propositivamente a tale quesito, come pure alla domanda già posta da Emilio Garroni (Estetica ed Epistemologia, 1976) su cosa faccia di un’ opera un’ opera d’arte. La risposta è nell’intenzionalità comunicativa, in una piena consapevolezza del proprio fare, come si legge nel punto 13 del Manifesto. A suggello del Manifesto è, infatti, scritto che MAP 13 ricerca “Un’arte nuova e pura, portata a sperimentare attraverso un processo intenzionale, l’analisi del mistero e dell’energia che si trasforma in composizione estetica, per giungere ad un’analisi speculativa e alla consapevolezza”. Questo a ribadire con forza e perentorietà quanto affermato nella premessa, in ragione della volontà di “superare qualsiasi convenzione pittorica esistente basata sulle forme,sulle immagini e sui modelli e porsi in un atteggiamento di analisi volta ad utilizzare qualsiasi mezzo espressivo”.
La sperimentazione continua ed incessante di tecniche dalla raffinata varietas, riverbero di un’alessandrina l’attenzione alla materia, è segno di una cura artigianale pregna di un’esperienza pregressa che dall’Arts and Crafts di William Morris transita alla pratica laboratoriale di Wiener Werkstaette della Mitteleuropa Secessionista di Klimt, Hoffmann e Moser,per arrivare alla Bauhaus ,nella quale insegnano, tra gli altri, Klee e Kandinskij , sanando anche l’apparente aporia di un’arganiana salvezza o caduta dell’arte moderna, di crisi dell’arte o arte della crisi. Sempre nel Manifesto del MAP 13,si legge al punto 11 “L’artista proattivo è proiettato a liberarsi dalle limitazioni dello spazio e del tempo e si pone in un atteggiamento di sperimentazione continua attraverso la pratica artistica: produce forme espressive mirate alla liberazione delle apparenze a favore dell’interiorità proiettata verso l’energia cosmica”.
La curiositas plutarchea nei confronti della multiformità epifenomenica sostiene, così, quella meraviglia aristotelica che nutre ogni atto gnoseologico e si orienta intenzionalmente alla comunicazione perché è necessario lavorare e “indagare con forza nella sfera individuale, ovvero le emozioni, le passioni, i sogni..…nella sfera del sociale:il relazionarsi con l’altro diverso da sé...”(punto 8). Infatti, “L’artista del movimento si pone in un atteggiamento di sensibilità estetica comunicativa, capace di riunire le percezioni con la realtà che lo circonda”(punto 12) .
L’opera, affrancata in tal modo da ogni vincolo mimetico e da ogni sudditanza accessoria – “Gli artisti del movimento propongono un’arte libera da ogni servitù a forme prese a prestito dalla natura”(punto 3)- afferisce ad un’area semantica più ampia, diventa opera aperta che si presta ad infinite combinazioni interpretative, ad una duttile dialettica ermeneutica, intessuta di rimandi e relazioni reciproche. Il gesto si fa medium di questa comunicazione intenzionata artisticamente perché “La ricerca artistica non è finalizzata alla rappresentazione, trasfigurazione o alla contemplazione della natura, ma è diretta all’essenza delle cose e al profondo legame che unisce ogni forma all’altra, in un contesto globale in continuo movimento ed evoluzione” (punto 4)
Mario Trecek
Mario Trecek poeta, scrittore, gestore culturale
MAP 13, “Il gioco delle incertezze”
È insito nella natura umana indagare, cercare, scoprire, rivelare l’eteorogeneo, non solo polemizzare, ma sperimentare attivamente con il reale e con se stessi, apparendo e scomparendo, non come la figura fantastica dei Simbolisti, bensí come alterità, indirizzando dolcemente la logica del dissenso provocatore verso il mistero, che rende testimonio di una co-presenza.
La poetessa argentina Diana Bellessi parla di “sopportare il mistero” nella sua opera “La pequeña voz del mundo” (La piccola voce del mondo), e aggiunge: “il linguaggio si scolpisce come si scolpisce la pietra, in un succedersi di rinunce”.
L’arte “libera da ogni servitù a forme prese a prestito dalla natura”, come si legge nel Manifesto MAP13, accresce la tendenza a giocare con le restrizioni e le incertezze dei suoi propri risultati. In questo caso i pittori ricorrono a un testo, un Manifesto di 13 punti, perché così come si fa con il pennello, anche la penna prova a disegnare segni “per dipingere il paese” in parole di Tolstoi, e senza fare un culto cabalistico alla scrittura, cosa che già fece Borges nel suo saggio “Del culto de los libros” (Del culto ai libri), molti sono gli artisti che fanno uso alternato di questi strumenti.
Il personaggio dell’ultimo romanzo dello scrittore francese Michel Houellebecq, “La carte et le territoire” (La carta e il territorio) si domanda: “Perché abbandonare la fotografia? Perché ritornare alla pittura?”. E Jed Martin, che recentemente ha presentato con successo una mostra fotografica ispirata alle mappe stradali Michelin, riflette: “non sono molto sicuro di saperlo…mi sembra che il problema delle arti plastiche sia l’abbondanza degli argomenti”. La pittura é come una strada a due sensi: da una parte si trova John Berger, che da artista plastico e fotografo deviene in scrittore, e che in “A Painter of Our Time” (Ritratto di un pittore) ci invita ad un appasionante viaggio all’interno della creazione artistica; dall’altra parte José Saramago dando voce al personaggio H (Hombre? –Uomo?-) nel suo romanzo “Manual de pintura y caligrafía” (Manuale di pittura e calligrafia) ci dice: “mi limito a premere il tubetto generosamente, senza lesinare il colore. Nero. Adesso per rivelare, non per nascondere”. E nero sará l’inchiostro per scrivere, perché leggere significa guardare attentamente, non la pagina bianca, la tela vuota, bensì la magia della lettura, dove il destino scopre i “cronopios” di Julio Cortazar e le “Istruzioni per interpretare tre pitture famose”.
In questo spazio di tempo, in questa lunga strada esistenziale, molte cose sono successe. Il “Bang” creativo è ormai silenziato, non a causa di un “Bang” onomatopeico, ma di un “Bang-Bang” di sterminio, risultato dell’olocausto europeo e delle dittature latinoamericane.
A partire dal manifesto futurista di Marinetti, dove si rivendicavano tanto l’automobile quanto l’autoritarismo, abbiamo sofferto la sfrenata violenza del fondamentalismo di mercato e di stato. L’arte perse la parola, si esaurirono gli argomenti sui quali si potesse scrivere o dipingere. Walter Benjamín disse che c’era troppo deserto, troppa assenza. Le guerre ci immersero in un mondo “dantesco”. Si ruppe la rappresentazione e tutto divenne afasia e “abbandono della mimesi”, tanto della natura morta come del modello dal vivo, ci dice il filosofo di Córdoba, Diego Tatián.